6 NAZIONI FEMMINILE!
Inviato: 30 gen 2008, 12:04
Mi è piaciuto e lo riporto, aprendo anche un topic sul 6 Nazioni delle ragazze, che se lo meritano!
da www.repubblica.it
Oltre a quello che parte sabato c'è il Sei nazioni della nazionale femminile
Mischie, palccaggi e biberon a bordo campo. Sfida al più maschiel degli sport
Rugby, rimmel e fango
le ragazze che fanno meta
di CORRADO SANNUCCI
ROMA - Gli uomini della mischia, dicono di se stesse quando s'ammucchiano contro le avversarie. Ma non sono uomini, sono donne. "E' un modo di dire. Quello corretto, le donne della mischia, forse farebbe ridere". Giuliana Campanella è arrivata da Auckland con i due figli per poter essere in campo venerdì a Dublino contro l'Irlanda nella prima partita del Sei Nazioni femminile di rugby.
"Quando prolungo l'allenamento e preparo qualche calcio tra i pali Patrick, che ha tre anni, mi fa 'the last one, mommy, please', mentre Chiara che ha sei mesi bruca il prato". Daniela Gini è romana, capitana della Red&Blu, figlia di giocatore e moglie di giocatore, come gran parte di questa tribù di ragazze che è cresciuta con il rugby in famiglia. "Era il novembre 2005, sono andata in meta, mi si è storto il piede con frattura dei malleoli e del perone. Li ho rigirati, rimettendoli a posto con le mie mani. Al medico che mi portava fuori e scherzava ho detto: se non piango non vuol dire che non mi faccia male". Daniela è la faccia glamour della nazionale, con un suo generoso decolletè ha fatto la sua apparizione-choc a una manifestazione nella provincia di Roma: possono essere così le giocatrici di rugby?, si chiedeva Gasbarra.
Il corto circuito tra bellezza e scontro fisico è tutto nella testa di chi sta fuori: per loro che in campo mettono la faccia è tutto normale. Rimmel e fango, tackle e biberon, il combattimento e la carezza, tutto stride con l'immagine della donna. Come stride Paola Zangirolami, 23 anni, da Monselice, uno scricchiolo di un metro e 60, con due occhi azzurri e i riccioli biondi, campione d'Italia con il Riviera del Brenta. E' il talento dell'Italia del rugby, ma è con queste forze che dovremo combattere i donnoni del nord, le gigantesse inglesi e quegli altri personaggi sparsi nelle altre squadre come la famosa 'Ugo' della Francia o 'Manolo' della Spagna, così chiamate per la loro scarsa avvenenza.
I commenti più frequenti: ma che le donne giocano a rugby? Oppure: ma le donne devono stare a casa. Oppure: ma che mi stai a prendere in giro. La dimostrazione migliore sarebbe un placcaggio assassino lì sul posto, ma le ragazze fuori dal campo si inteneriscono. "Le belle sono belle e le brutte brutte. C'è chi ha figli e chi è 'maschile'. Ma perché, gli altri sport non tolgono femminilità? Andate a vedere le botte che si danno in una partita di basket" dice Michela Tondinelli, mediano di apertura della Benetton, la squadra che ha introdotto il rugby femminile in Italia negli anni '80, vincendo poi 19 scudetti consecutivi.
A ferirle non è il maschilismo estetico ma la clandestinità in cui vivono. Non ci sono televisioni per loro, niente dirette, quindi niente sponsor. La federazione le onora con una diaria di 26 euro al giorno: Daniela affida la figlia a nonni e zii, le altre prendono le ferie, e c'è chi non fa vacanza per lustri.
E' ancora il mondo del dilettantismo puro e dell'allattamento a bordo campo. "Ma i nostri terzi tempi sono fantastici", leggendario quello di Cagliari, dove le squadre ospiti della Grazia Deledda (come se la Roma o la Lazio si chiamassero Alberto Moravia) vengono festeggiate con malloreddus, culurgiones e seadas. Niente catering, tutto fatto in casa delle giocatrici.
E' l'unica concessione alla cultura della donna così com'è stata codificata da chi la vuole casalinga e mamma: ma giocare a rugby è una forma di protesta o di emancipazione? "So soltanto che giocare vuol dire avere coraggio, mettersi alla prova, accettare le sfide. E poi ci piace il contatto fisico", dice Daniela. Il piacere dell'uno contro uno contrapposto all'uno contro uno con il figlio o il marito: forse allenarsi a questo per quello o viceversa. I numeri del movimento rugbistico femminile però sono indicativi: le tesserate 4 anni fa erano 1000, oggi sono 4000, delle quali l'80% ragazze sotto i 16 anni, probabilmente arrivate al rugby dopo avere visto i fratelli Bergamasco nel Sei Nazioni.
Lo dicono tutte: il confronto con i maschi è sempre presente. Forse i numeri sono troppo piccoli per rivelare una tendenza sociologica ma è significativo un altro dato: sotto Roma non ci sono squadre ma sperdute unità, eroine sole in campi spelacchiati della Sicilia. "Una vergogna" mugugna Giuliana Campanella, che è messinese, protagonista di una stagione in cui a Messina una squadra, e forte, c'era. Giuliana vive nel paradiso del rugby: e avere un marito neozelandese aiuta nel babysitteraggio. La Zangirolami insegna e studia, la Gini è contabile, la Facchini è veterinario, le sorelle Schiavon, Veronica e Valentina, una laureata in lingue orientali, l'altra è imprenditrice. E' un mondo colto, un'umanità diversa da quella delle veline o delle aspiranti al Grande Fratello. "Ragazze che vogliono apparire per gli altri. Che non rischiano le mani. Che non si sdraiano sulla compagna a terra per proteggerla" dice Daniela. Un mondo colto com'è nella tradizione del rugby, sport delle élite.
Quella volta Twickenham è stato il giorno di gloria della breve storia del rugby femminile: Lo Cicero e qualche altro, che avevano finito da poco la loro partita, si sono fermati a salutare, fare coraggio e a vedere qualche minuto della partita. Un riconoscimento che arriva dai maschi ma è già un inizio. L'impegno della Federugby viene definito da tutte "umano più che economico": le ragazze arrivano al loro Sei Nazioni con solo una settimana di ritiro e nessuna amichevole di preparazione. Ma anche i maschi erano in queste condizioni cinquant'anni fa, senza risultati, senza soldi, senza tv.
"Siamo le più povere delle povere" dicono. In compenso la loro nazionale è la più italiana delle italiane, qui non ci sono equiparate o oriunde o mogli acquisite. Un problema c'è: le azzurre, a partire dalla Zangirolami, sono tutte troppo piccole. Ma le alte, in Italia, ormai vanno tutte a giocare a pallavolo. Basterebbe una vittoria per fare emergere le protagoniste di un mondo che è fatto di botte, di lividi che passano nella notte e il giorno dopo c'è il bambino da portare all'asilo o l'ufficio da raggiungere. Per ascoltare poi la solita frase: donne e rugby, ma che mi stai a prendere in giro?
(30 gennaio 2008)
da www.repubblica.it
Oltre a quello che parte sabato c'è il Sei nazioni della nazionale femminile
Mischie, palccaggi e biberon a bordo campo. Sfida al più maschiel degli sport
Rugby, rimmel e fango
le ragazze che fanno meta
di CORRADO SANNUCCI
ROMA - Gli uomini della mischia, dicono di se stesse quando s'ammucchiano contro le avversarie. Ma non sono uomini, sono donne. "E' un modo di dire. Quello corretto, le donne della mischia, forse farebbe ridere". Giuliana Campanella è arrivata da Auckland con i due figli per poter essere in campo venerdì a Dublino contro l'Irlanda nella prima partita del Sei Nazioni femminile di rugby.
"Quando prolungo l'allenamento e preparo qualche calcio tra i pali Patrick, che ha tre anni, mi fa 'the last one, mommy, please', mentre Chiara che ha sei mesi bruca il prato". Daniela Gini è romana, capitana della Red&Blu, figlia di giocatore e moglie di giocatore, come gran parte di questa tribù di ragazze che è cresciuta con il rugby in famiglia. "Era il novembre 2005, sono andata in meta, mi si è storto il piede con frattura dei malleoli e del perone. Li ho rigirati, rimettendoli a posto con le mie mani. Al medico che mi portava fuori e scherzava ho detto: se non piango non vuol dire che non mi faccia male". Daniela è la faccia glamour della nazionale, con un suo generoso decolletè ha fatto la sua apparizione-choc a una manifestazione nella provincia di Roma: possono essere così le giocatrici di rugby?, si chiedeva Gasbarra.
Il corto circuito tra bellezza e scontro fisico è tutto nella testa di chi sta fuori: per loro che in campo mettono la faccia è tutto normale. Rimmel e fango, tackle e biberon, il combattimento e la carezza, tutto stride con l'immagine della donna. Come stride Paola Zangirolami, 23 anni, da Monselice, uno scricchiolo di un metro e 60, con due occhi azzurri e i riccioli biondi, campione d'Italia con il Riviera del Brenta. E' il talento dell'Italia del rugby, ma è con queste forze che dovremo combattere i donnoni del nord, le gigantesse inglesi e quegli altri personaggi sparsi nelle altre squadre come la famosa 'Ugo' della Francia o 'Manolo' della Spagna, così chiamate per la loro scarsa avvenenza.
I commenti più frequenti: ma che le donne giocano a rugby? Oppure: ma le donne devono stare a casa. Oppure: ma che mi stai a prendere in giro. La dimostrazione migliore sarebbe un placcaggio assassino lì sul posto, ma le ragazze fuori dal campo si inteneriscono. "Le belle sono belle e le brutte brutte. C'è chi ha figli e chi è 'maschile'. Ma perché, gli altri sport non tolgono femminilità? Andate a vedere le botte che si danno in una partita di basket" dice Michela Tondinelli, mediano di apertura della Benetton, la squadra che ha introdotto il rugby femminile in Italia negli anni '80, vincendo poi 19 scudetti consecutivi.
A ferirle non è il maschilismo estetico ma la clandestinità in cui vivono. Non ci sono televisioni per loro, niente dirette, quindi niente sponsor. La federazione le onora con una diaria di 26 euro al giorno: Daniela affida la figlia a nonni e zii, le altre prendono le ferie, e c'è chi non fa vacanza per lustri.
E' ancora il mondo del dilettantismo puro e dell'allattamento a bordo campo. "Ma i nostri terzi tempi sono fantastici", leggendario quello di Cagliari, dove le squadre ospiti della Grazia Deledda (come se la Roma o la Lazio si chiamassero Alberto Moravia) vengono festeggiate con malloreddus, culurgiones e seadas. Niente catering, tutto fatto in casa delle giocatrici.
E' l'unica concessione alla cultura della donna così com'è stata codificata da chi la vuole casalinga e mamma: ma giocare a rugby è una forma di protesta o di emancipazione? "So soltanto che giocare vuol dire avere coraggio, mettersi alla prova, accettare le sfide. E poi ci piace il contatto fisico", dice Daniela. Il piacere dell'uno contro uno contrapposto all'uno contro uno con il figlio o il marito: forse allenarsi a questo per quello o viceversa. I numeri del movimento rugbistico femminile però sono indicativi: le tesserate 4 anni fa erano 1000, oggi sono 4000, delle quali l'80% ragazze sotto i 16 anni, probabilmente arrivate al rugby dopo avere visto i fratelli Bergamasco nel Sei Nazioni.
Lo dicono tutte: il confronto con i maschi è sempre presente. Forse i numeri sono troppo piccoli per rivelare una tendenza sociologica ma è significativo un altro dato: sotto Roma non ci sono squadre ma sperdute unità, eroine sole in campi spelacchiati della Sicilia. "Una vergogna" mugugna Giuliana Campanella, che è messinese, protagonista di una stagione in cui a Messina una squadra, e forte, c'era. Giuliana vive nel paradiso del rugby: e avere un marito neozelandese aiuta nel babysitteraggio. La Zangirolami insegna e studia, la Gini è contabile, la Facchini è veterinario, le sorelle Schiavon, Veronica e Valentina, una laureata in lingue orientali, l'altra è imprenditrice. E' un mondo colto, un'umanità diversa da quella delle veline o delle aspiranti al Grande Fratello. "Ragazze che vogliono apparire per gli altri. Che non rischiano le mani. Che non si sdraiano sulla compagna a terra per proteggerla" dice Daniela. Un mondo colto com'è nella tradizione del rugby, sport delle élite.
Quella volta Twickenham è stato il giorno di gloria della breve storia del rugby femminile: Lo Cicero e qualche altro, che avevano finito da poco la loro partita, si sono fermati a salutare, fare coraggio e a vedere qualche minuto della partita. Un riconoscimento che arriva dai maschi ma è già un inizio. L'impegno della Federugby viene definito da tutte "umano più che economico": le ragazze arrivano al loro Sei Nazioni con solo una settimana di ritiro e nessuna amichevole di preparazione. Ma anche i maschi erano in queste condizioni cinquant'anni fa, senza risultati, senza soldi, senza tv.
"Siamo le più povere delle povere" dicono. In compenso la loro nazionale è la più italiana delle italiane, qui non ci sono equiparate o oriunde o mogli acquisite. Un problema c'è: le azzurre, a partire dalla Zangirolami, sono tutte troppo piccole. Ma le alte, in Italia, ormai vanno tutte a giocare a pallavolo. Basterebbe una vittoria per fare emergere le protagoniste di un mondo che è fatto di botte, di lividi che passano nella notte e il giorno dopo c'è il bambino da portare all'asilo o l'ufficio da raggiungere. Per ascoltare poi la solita frase: donne e rugby, ma che mi stai a prendere in giro?
(30 gennaio 2008)